mercoledì 3 novembre 2010

QUANDO DRAGAN NE AVEVA VOGLIA - Massimo Fini

Direttore del mensile LA VOCE DEL RIBELLE
e collaboratore de IL FATTO QUOTIDIANO,
Massimo Fini dieci anni fa scrisse
un bellissimo commento personale
sulla parabola di Dragan Stojkovic,
fuoriclasse irripetibile quanto sfortunato.



QUANDO DRAGAN NE AVEVA VOGLIA

Massimo Fini

GUERIN SPORTIVO – Settimanale, annata 2000 - rubrica fissa "IO E LUI"

La prima volta che vidi Dragan Stojkovic, il capitano “storico”
della Stella Rossa e di una grande e sfortunata nazionale jugoslava,
fu il 26 ottobre 1988a San Siro.

Si giocava Milan-Stella Rossa per il primo turno (allora già ottavi di finale) della Coppa dei Campioni. Il Milan era già quello di Berlusconi, di Sacchi e degli olandesi, ma era appena all’inizio del suo ciclo, aveva vinto il campionato ma la Coppa era la sua prova del fuoco. I rossoneri sottovalutarono la partita, non sapevano che fra gli avversari c’erano due giovanissimi e ancora ignoti talenti che sarebbero diventati dei “crack” del calcio mondiale: Dragan Stojkovic, che aveva 23 anni, e Dejan Savicevic.


I due fecero impazzire la difesa milanista, la ubriacarono di dribbling. Segnò Stojkovic al 47’, pareggiò Virdis un minuto dopo. Nel ritorno a Belgrado, il 9 novembre, segnò Savicevic. Sembrava finita, ma verso il decimo della ripresa calò la nebbia sul campo e la partita venne annullata. La ripetizione del match, il giorno dopo, era psicologicamente segnata. Il Milan andò in vantaggio con Van Basten, la Stella Rossa trovò la forza di pareggiare col suo capitano Stojkovic. Ma i rigori le furono fatali. 

Nella vita ci vuole anche fortuna. Berlusconi ne ha sempre avuta in qualità industriali. La nebbia a Belgrado c’è una volta ogni vent’anni, se non fosse scesa proprio il 9 novembre di dodici anni fa sono convinto che il ciclo del Milan non ci sarebbe mai stato e forse oggi non ci troveremmo nemmeno fra i piedi il Berlusconi politico. Stojkovic invece di fortuna non ne ha mai avuta: è stato coinvolto, assieme ad un’intera generazione di calciatori serbi, in vicende politiche che con lo sport non hanno nulla a che fare e – complice anche una serie di infortuni – non ha avuto la gloria e la fama che gli spettano.
Io lo amo anche per questo.

Mi è sempre piaciuto il calcio jugoslavo, lo seguivo su Capodistria ai tempi belli, in cui non c’erano Telepiù e Stream. I giocatori slavi mi piacciono perché son fantasiosi e creativi come i brasiliani, ma non ne hanno l’intollerabile calcio “bailado”, sono anzi duri, violenti e teppisti oltre che indolenti e lavativi. Ma soprattutto sono indisciplinati (si pensi, sempre in area slava, al rumeno Gheorghe Hagi e al bulgaro Hristo Stoichkov). Se han voglia di giocare possono battere chiunque, così come, se l’estro non li sorregge, possono perdere da chiunque. Fin da bambino ho amato gli slavi, in particolare i serbi (non solo i calciatori, ma anche i cestisti, i pallanuotisti e le canagliesche guardie del corpo di Alain Delon), ma ho capito perché solo quando, a metà degli anni ’80, sono andato in Russia e ho scoperto radici che avevo dimenticato di avere.
Mia madre infatti è russa, di Saratov.

Stojkovic del calcio jugoslavo rappresenta il meglio, ha l’intero repertorio del grande campione, è un “10” predestinato: dribbling, fantasia, ultimo passaggio, visione di gioco, lanci, se occorre, di quaranta metri. In una partita a Valencia, fra Spagna e Jugoslavia, del 1996, gli ho visto fare, già vecchietto, un tunnel in corsa a Miguel Ángel Nadal quasi sulla linea di fondo e poi da lì scodellare al centro, con un delizioso esterno, un pallone per Predrag Mijatovic che, con la porta spalancata, non trovò di meglio da fare che abbattere
sulla linea Rafael Alkorta.

Ai mondiali italiani la Jugoslavia di Stojkovic e Savicevic non era ancora competitiva. Era, come sempre, un colabrodo in difesa. Ma in una partita con la Spagna, ottavi di finale, in dieci contro undici (gli slavi giocano meglio in stato di inferiorità, esalta e capovolge il loro masochismo) Stojkovic ebbe tempo di estrarre dal suo scrigno due gioielli, uno su punizione e l’altro così: raggiunto da un cross si trovò solo, all’altezza dell’area piccola con davanti un terzino e il portiere Andoni Zubizarreta, chiunque altro avrebbe tirato subito, lui ebbe la freddezza di aspettare e con una finta mandò per terra il terzino e l’estremo difensore, poi di piatto appoggiò il pallone in rete.




Nel ’90 volai a Bari per la finale di Coppa dei Campioni fra Olympique Marsiglia e Stella Rossa. Il mio cuore era dilaniato. Stojkovic infatti era passato al Marsiglia. Per fortuna, reduce da un grave infortunio, non giocò e io potei tifare tranquillamente per gli slavi fra cui giocava un altro mio idolo, un vecchio guerriero dell’area di rigore, Miodrag Belodedici.

La grande Jugoslavia fu attiva dal ’90 al ’92. A Stojkovic e Savicevic si erano aggiunti Vladimir Jugovic, Sinisa Mihajlovic (che allora faceva l’ala), Zvonimir Boban, Robert  Prosinecki. E a centrocampo giostrava il basilare Mehmed Bazdarevic, un musulmano bosniaco che, essendo i serbi e i croati pazzamente votati all’attacco, dava le fondamentali geometrie e copriva la difesa. Allenatore era un altro bosniaco: Ivica Osim.

Quella Jugoslavia stellare vinse praticamente a punteggio pieno il suo girone e si presentò in Svezia da grande favorita. Ma all’ONU si preparavano le sanzioni contro la Jugoslavia di Slobodan Milosevic. Preoccupato, chiesi a Tony Damascelli, capo dei servizi operativi dell’Indipendente dove lavoravo, se c’erano dei rischi anche per la squadra di calcio: <<Ma va!>>, mi rispose sicuro. <<Vuoi che l’ONU, con tutto quello che ha da fare, si occupi di calcio?>>.
La mia considerazione per Damascelli scese a zero quando vidi che i ragazzi slavi venivano cacciati dalla Svezia, da un giorno all’altro, come cani rognosi, una cosa vergognosa.

Quell’Europeo fu vinto dalla Danimarca che,
nel girone di qualificazione, era arrivata seconda dietro la Jugoslavia.

La Jugoslavia si ripresentò sulla scena internazionale nel 1998. Ma i suoi campioni erano invecchiati. Stojkovic, mezzo rotto, giocava in Giappone, i croati se n’erano andati. Io però sognavo ugualmente la grande rivincita. Demmo una lezione di calcio alla Germania, con Stojkovic grande protagonista. Poi venne la sconcertante partita con l’Olanda (ottavi). A Belgrado si sostiene che qualcuno si sia venduto la partita. Gli jugoslavi scesero in campo molli, fiacchi, indolenti, come nelle loro giornate peggiori, come se non ci fossero da riscattare anni di frustrazioni e di soprusi sportivi. Andarono sotto di un gol. Nondimeno all’inizio della ripresa, su cross di Stojkovic, si procurarono un rigore. Voi a chi lo avreste fatto tirare: a Stojkovic, a Mihajlovic? Fu designato lo sciagurato Mihajlovic che mandò il pallone a stamparsi sulla traversa. Come se non bastasse a venti minuti dalla fine Mihajlovic accusò un misterioso infortunio senza che nessuno lo avesse toccato e uscì dal campo.

Qualche tempo dopo incontrai a “Controcampo” Vujadin Boskov, che nel frattempo era diventato CT della nazionale jugoslava, e gli chiesi di Stojkovic: <<Ah, lui essere giocatore finito>>, mi rispose con una smorfia.  Pensai che non l’avrei rivisto più e mi misi il cuore in pace. Invece me lo ritrovai capitano agli Europei d’Olanda. La partita con la Slovenia fu tipica: gli slavi riuscirono ad andare sotto di tre gol con gli sloveni che son bravi solo nello sci, poi, per fortuna, fu espulso Mihajlovic, rispuntò l’orgoglio serbo e finì 3-3. Con la Norvegia, assente Mihajlovic, Stojkovic fece una grandissima partita, l’ultima. Con la Spagna fu la vergogna, l’arbitro prolungò la partita finché gli iberici, sotto di un gol alla fine dei novanta minuti canonici, non riuscirono a vincerla 4-3.

Alla Jugoslavia toccò quindi ai quarti l’insidiosa Olanda. E qui il rimminchionito Boskov compì il suo capolavoro negativo. Innanzitutto ripropose l’impresentabile Mihajlovic . Che fu deleterio in tre modi. Come libero, facendosi uccellare due volte da Patrick Kluivert (e ci vuole), perché tirò tutte le punizioni senza azzeccarne una (Stojkovic, se la distanza è congrua, è tre volte meglio), perché si ostinò a lanci di 60 metri dalla difesa che saltavano regolarmente il centrocampo che, con Stojkovic, Jugovic e Ljubinko Drulovic, era il reparto migliore. Ma l’autentica nefandezza l’ineffabile Vujadin la fece in difesa. Aveva un solo difensore veramente forte, Miroslav Djukic, stopper del Valencia, e lo mise terzino per fermare Marc Overmars. Finì 6 a 1.

Perché i serbi, secondo la loro storica e masochistica vocazione, non possono limitarsi a perdere, no, devono essere sconfitti nel modo più umiliante e degradante.


Ma io li amo anche per questo. Anzi, forse proprio per questo.

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