domenica 3 aprile 2011

Storia della Tattica: La nascita e la scomparsa del Libero [Seconda Parte]

clicca sul link per la Prima Parte:



“Vinca il migliore… Sperèmo de no!” 
[‘El Paròn’ Rocco alla vigilia di un Padova-Juventus]

Allora perché, unanimemente, in Europa il calcio italiano è sempre stato etichettato come “difensivo”, se consideriamo che a tutte le esperienze sin qui descritte, dal valore storiografico comunque importantissimo, possiamo riconoscere una certa fama solo in un circoscritto ambito locale?
Probabilmente la “colpa” è degli anni d’oro vissuti nella Milano calcistica degli anni Sessanta, quando Milan e Inter cominciarono a bussare alle porte della leggenda, facendosi largo alla corte elitaria della Coppa Campioni, sino a quel momento egemonizzata dal Real Madrid e dal Benfica di Eusébio. Già la Fiorentina del mitico “Professore” Fulvio Bernardini (nemico giurato del catenaccio, tra le altre cose...) si era arrampicata sulle vette dell’Olimpo, osando sfidare nella finale del 30 maggio 1957 nientemeno che gli dèi 
in maglia merengue, per giunta a domicilio 
di fronte ai 124.000 spettatori assiepati nel Santiago Bernabéu.
Dopo un’ottima partita dei Viola, un rigore concesso generosamente dall’arbitro olandese Leopold Sylvain Horn al 69’ alla “Saeta Rubia” Alfredo
Di Stefano e il raddoppio al 76’ dell’ala sinistra “la galema del cantabrico” Francisco Gento ristabilirono le “gerarchie” tradizionali.

Già, ma come giocava il celeberrimo Grande Real?
I ‘Blancos’ vinsero le cinque Coppe Campioni consecutive con tre allenatori diversi: le prime due con José Villalonga, due con l’argentino Luis Carniglia 
e l’ultima con Miguel Muñoz (che, da giocatore, aveva vinto nel 1956 e nel 1957). I principi tattici erano diversi ma sostanzialmente simili; in generale,
i tre allenatori cercarono di fare una sintesi tra l’MM 3-2-3-2 inventato da Gusztáv Sebes con la Grande Ungheria, con Di Stefano che ricopriva 
lo stesso ruolo di Hidegkuti, “finto centravanti” (non a caso l’argentino è considerato il giocatore più completo e duttile della storia del calcio), e il 4-3-3 del Brasile 1962, CT Aymoré Moreira, dato che il terzino sinistro merengue arretrava in fase di non possesso. Questo era possibile grazie alla duttilità dei giocatori: l’esempio perfetto è quello di Marquitos, stopper che si trasformò in terzino destro con l’arrivo nel 1957 del grande centrale uruguagio Santamaria il quale, concettualmente, svolgeva mansioni simili a quelle del libero, senza però staccarsi dietro la terza linea (infatti, a fine carriera giocò anche da centromediano/”volante” di centrocampo). Imprescindibili erano le due ali, 
a destra il francese Raymond Kopa e a sinistra il succitato Gento.
La ciliegina sulla torta la pose il Colonnello Puskás nel 1958, 
che trovò sul suolo iberico un rifugio dai carri armati sovietici.

Nonostante l’esito infausto di quella sera madrilena di fine primavera, “Fuffo” il saggio aveva prontamente dimostrato che l’Italia era ormai decisa a sedersi al tavolo delle grandi, poiché si cominciava ad intravedere una luce in fondo al tunnel imboccato nel dopoguerra (il Mondiale 1950 in Brasile crollato in fretta al Primo Turno sotto i colpi di Hasse Jeppson, e l’edizione di 4 anni dopo conclusa dal disastroso spareggio 1-4 contro i padroni di casa della Svizzera, guidati dall’immarcescibile Karl Rappan).


Dopo l’umiliante mancata qualificazione a Svezia 1958 e il dimenticabile Mondiale ’62 in Cile, il calcio italiano era pronto a prendersi le sue 
fragorose rivincite, riconoscendo idealmente la propria capitale in Milano
(ma non stiamo parlando di proto-leghismo…): furono in particolare due grandi allenatori a spostare il baricentro sportivo nella città meneghina, segnando indelebilmente le memorie dei tifosi rossoneri e nerazzurri e scolpendo i propri nomi a caratteri cubitali nella storia del calcio europeo.

Come dimenticare Nereo Rocco, il quale fu tra i primi ad applicare 
il catenaccio in Italia? Il perfezionista allenatore triestino mandava 
a memoria le lezioni imparate nella sua dignitosa carriera da calciatore
(Triestina, Napoli e Padova le maglie indossate, con la perla di un’unica presenza in Nazionale nel match di qualificazione ai Mondiali 1934, vinto 4-0 dagli Azzurri di Pozzo contro la Grecia): infatti, negli anni dell’immediato dopoguerra (tra il 1947 e il 1950) assunse l’incarico di giocatore/allenatore della Libertas Trieste in Serie C, schierandosi come libero dietro la terza linea, lui che in passato era stato una disciplinata mezz’ala d’ordine.
Si fece notare in un derby/amichevole contro la ben più quotata Triestina, infliggendo agli alabardati una clamorosa sconfitta che gli valse l’ingaggio sulla panchina della principale squadra cittadina, allora in disgrazia poiché ultima classificata in Serie A nel 1946/47 e ripescata d’ufficio per via della difficile situazione in cui versava la città dopo il disastroso conflitto bellico. Il giovane Rocco non si fece affatto pregare, e propose un modulo innovativo cui talora ci si riferisce come il "vero" catenaccio, con un atteggiamento rigidamente difensivo ed uno schieramento basato sull’ 1-3-3-3, in cui il rude Ivano Blason si portava alle spalle del centromediano Sessa e della linea dei marcatori. In fase di non possesso, le ali arretravano sulla linea dei centrocampisti, trasformando la conformazione della squadra in un ancor più rigoroso 1-4-4-1 o 1-4-3-2.

I risultati furono addirittura clamorosi: nel campionato 1947-48, gli alabardati ottennero un inaspettato secondo posto a pari merito con Milan e Juventus e dietro solo al Grande Torino (che Rocco riuscì a imbrigliare solo in casa, 0-0 il 23 maggio 1948, dopo il pesante rovescio 0-6 subito in casa dei granata il 28 dicembre 1947), irraggiungibile con 16 punti di vantaggio sulle più dirette inseguitrici. Dopo quell’impresa entrata negli annali del calcio giuliano, il percorso della Triestina proseguì nei campionati successivi con due apprezzabili piazzamenti consecutivi all’ottavo posto, prima che il rapporto tra Rocco e la società s’incrinasse irreparabilmente, fino ad arrivare alla rottura definitiva e al passaggio dell’allenatore al Treviso.

In Veneto Nereo Rocco si rilanciò alla grande: arrivato al Padova nel 1954, condusse i biancoscudati alla massima divisione, dove fece acquistare il fido Ivano Blason per centrare un altro clamoroso piazzamento, un terzo posto 
nel 1957-58 alle spalle della Fiorentina e dei campioni della Juventus,
trascinati dai 20 gol del formidabile “uccellino svedese” Kurt Hamrin.

Una volta passato sulla panchina del Milan dopo la breve parentesi 
con la Nazionale Olimpica, riuscì a vincere nel decennio dei Sessanta 
due scudetti (1961-62 e 1967-68
e due indimenticabili Coppe dei Campioni:
nella finale di Wembley del 22 maggio 1963, una doppietta di José Altafini decise 
il 2-1 contro il Benfica, mentre il 
28 maggio 1969 al Bernabéu fu una tripletta di Pierino Prati a piegare clamorosamente l’Ajax (4-1) di Rinus Michels e del giovanissimo astro nascente Johann Cruijff, la coppia che da lì a pochi anni avrebbe provato a spazzare via il modello 
di calcio imposto da Rocco e i suoi seguaci.

Arrivarono anche 3 Coppe Italia negli anni Settanta, 
una Coppa Intercontinentale nel 1969 (insidiosa doppia finale 
contro gli argentini dell’Estudiantes, 3-0 e 1-2
e due Coppe delle Coppe: il 23 maggio 1968 
a Rotterdam una doppietta di Hamrin stende 2-0 l’Amburgo,
mentre il 16 maggio 1973 Luciano Chiarugi decide 
la discussa finale contro il Leeds United a Salonicco.

Un altro famoso interprete del catenaccio e dell'utilizzo del libero (l'indimenticabile livornese Armando Picchi, capitano coraggioso dei nerazzurri, ex-mezz’ala prima e terzino destro poi, che esordì nella nuova posizione al termine del 1961-62, nella vittoriosa trasferta Bologna-Inter 0-2 del 1 aprile ‘62) fu Helenio Herrera che, sempre negli anni Sessanta, dopo aver vinto con l’Atlético Madrid e il Barcellona quattro campionati spagnoli, insieme a due Coppe di Spagna e 2 Coppe delle Fiere con gli stessi catalani, sbarcato in Italia all'Inter ottenne tre scudetti (1962-63, 1964-65, 1965-66), un primo posto a pari merito col Bologna di Fulvio Bernardini poi campione d’Italia per la settima volta nella sua storia in virtù dello spareggio di Roma (0-2 il 7 giugno 1964, deciso da una sfortunata autorete di Giacinto Facchetti al 75’ e un gol del danese Harald Nielsen all’83’), due secondi posti,
due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, prima di andare 
alla Roma e centrare una Coppa Italia nel 1968-69 oltre 
alla Coppa Anglo-Italiana del 1972 (3-1 sul Blackpool).

Nella versione di Herrera il catenaccio tornava prepotentemente 
alla versione "originale" di Rappan; davanti alla linea difensiva 
si posizionò il regista spagnolo Luis Suárez
che col suo piede calibrato telecomandava lanci lunghi 
e cambi di gioco per le ali e le punte, facendo incetta di trofei 
nonostante spesso ci si accontentasse di 1-0 striminziti ma efficaci.
E consegnando alla storia una squadra leggendaria: la Grande Inter.

Ancora nitide negli occhi degli appassionati di questo sport le immagini delle due finali consecutive vinte nella massima competizione europea per club:
il 27 maggio 1964 al Prater di Vienna, una doppietta di Sandro Mazzola 
e un gol di Aurelio Milani spezzano la resistenza del Grande Real
(3-1, con i “blancos” che si riscatteranno due anni dopo, vincendo la finale all’Heysel di Bruxelles 2-1 contro il Partizan Belgrado e dopo aver eliminato in semifinale l’Inter), e la partita casalinga del 27 maggio 1965, dove davanti 
ad 85.000 spettatori entusiasti un tiro al 42’ dell’ala destra brasiliana 
Jair sorprende il portiere del Benfica Alberto da Costa Pereira,
regalando ai nerazzurri il secondo storico alloro internazionale.

La Grande Inter cercava di sopperire alla mancanza di un centravanti “autentico” (il generoso Milani, o lo spagnolo Joaquin Peirò, non certo due frombolieri implacabili), ragion per cui ognuno di quei grandi fuoriclasse interpretava il proprio ruolo in maniera non troppo rigida:
Domenghini era una formidabile ala destra, ma non disdegnava di fare il riferimento centrale d’attacco (proprio perché il suo ruolo “originale” era già occupato dal brasiliano Jair) scambiandosi compiti e posizione con Sandro Mazzola, che partiva mezz’ala destra ma si muoveva in funzione degli inserimenti in prima linea, pronto a cogliere gli illuminanti lanci di Suarez. Al regista spagnolo si affiancava un mediano frangiflutti (Bedin, Zaglio o Tagnin), mentre Corso partiva da ala sinistra per poi accentrarsi in posizione di mezz’ala per sfruttare gli inserimenti dell’inesauribile Facchetti. L’esempio perfetto è proprio la citata finale di Vienna, in cui lo stopper Guarneri marcò a uomo il formidabile Puskás, il ruvido mediano Carlo Tagnin prese in consegna Alfredo Di Stefano e non lo lasciò giocare, tanto da meritarsi i complimenti unanimi della stampa, pur in un ruolo oscuro; intanto, Facchetti come di consueto martellò sulla sinistra, limitando le incursioni dell’ala destra avversaria Amancio. E mentre Mariolino Corso si dedicò a predicare calcio da mezz’ala sinistra arretrata, Mazzola sfruttò da par suo gli spazi aperti da Milani
(autore anche del momentaneo 2-0) e Jair per siglare la doppietta decisiva.

A corollario, arrivarono come detto due Coppe Intercontinentali, 
a seguito delle furiose battaglie ingaggiate sia nel 1964 che nel 1965 
con gli argentini dell’Independiente guidati dal tecnico Manuel Giudice, 
in 5 infuocati match tra Milano, Avellaneda e Madrid (dove si giocò 
lo spareggio del 26 settembre 1964, 1-0 grazie al gol di Mario Corso 
al 20’ minuto dei tempi supplementari). 


Chi ha “ucciso” il libero?

In reazione ed in opposizione al catenaccio, verso la fine degli anni Sessanta 

nacque, soprattutto ad opera delle squadre del Nord Europa
la filosofia del "calcio totale", destinata a dominare negli Anni Settanta 
con squadre di club come l'Ajax e le nazionali di Olanda e Germania.


C’è una serata in particolare che potrebbe essere considerata 
una sorta di spartiacque tra la tradizione e l’innovazione: 
la memoria vola a Lisbona, 25 maggio 1967
finale di Coppa dei Campioni tra l'Inter di Herrera 
e gli scozzesi del Celtic di Glasgow, guidati da Jock Stein,
ex ruvido difensore costretto al ritiro dalla carriera agonistica 
nel 1955 a causa di un brutto infortunio.

I milanesi andarono in vantaggio grazie ad un rigore concesso dall’arbitro tedesco Kurt Tschenscher e trasformato da Sandro Mazzola al 6’ del primo tempo. La partita sembrò mettersi subito in discesa per i nerazzurri, che arretrarono il proprio baricentro lasciando il pallino del gioco al bianco-verdi, forti della loro superiorità tecnico/tattica e pronti a ripartire in contropiede come d’abitudine. Invece, fu un massacro agonistico: il Celtic si gettò con furore alla ricerca del pareggio, arrivando a creare una paurosa mole di gioco e tirando verso la porta del povero Giuliano Sarti in quasi trenta occasioni! 
Le geometrie ispirate di Bobby Murdoch e le folate dell'inafferrabile ala destra Jimmy Johnstone misero in croce il consueto atteggiamento rinunciatario degli italiani, e solo i miracoli in serie dell'estremo difensore emiliano scongiurarono un passivo più pesante.

Il meritato pareggio fu firmato solo al 63’ dal grande terzino sinistro Tommy Gemmell, mentre la squadra di Herrera tentava stoicamente di resistere all’impeto della marea scozzese; all’ 84’ l’attaccante Steve Chalmers piegò 
le residue forze nerazzurre, siglando il gol del definitivo 2-1 e regalando ai britannici il primo storico trionfo nella competizione.

Quella grande partita valse ai bianco-verdi il suggestivo appellativo di “Lisbon Lions”, grazie al coraggio con cui giocarono il match nonostante l’importanza della posta in palio; tra le dichiarazioni di fine gara,
si registrò un onesto e signorile appunto dello stesso Helenio Herrera:
"Il Celtic ha meritato di vincere, e la loro è stata la vittoria dello sport".

Sotto la guida di Stein, ininterrotta dal 1965 al 1978, la squadra scozzese vinse dieci titoli nazionali, sette Coppe di Scozia e sei Coppe di Lega; dopo una breve parentesi al Leeds United in Inghilterra, il mister guidò la Nazionale di Sant’Andrea ai Mondiali di Spagna ’82 (dignitosa eliminazione nel Gruppo 6 per mano di Brasile e URSS dopo aver demolito 5-2 la Nuova Zelanda), morendo prematuramente d’infarto a Cardiff il 10 settembre 1985 durante 
il derby Galles-Scozia valevole per le qualificazioni a Mexico ’86.


In realtà il "punto di rottura" vero fu negli anni Settanta con la definitiva emancipazione del Calcio Totale, che vide la sua esplosione in Olanda;
eppure molte squadre continuarono a giocare col libero (specie qui in Italia) anche dopo le meraviglie dell'Ajax e dell’ "Arancia Meccanica" di Rinus Michels. Molto importante fu anche l’apporto negli anni Ottanta dell’Est Europa, e in particolare della Dinamo Kiev di Oleg Blokhin e guidata da Valerij Lobanovs’kyj che vinse due Coppe delle Coppe (1975 e 1986),
così come quello del Belgio che nel 1980 arrivò fino alla finale dei Campionati Europei. E lo stesso Michels era seduto sulla panchina dell'Olanda che vinse l’Europeo del 1988, battendo 2-0 in finale l’URSS… di Valerij Lobanovs’kyj, giusto per chiudere il cerchio di questa straordinaria rivoluzione tattica.

Oltre al Lanerossi Vicenza allenato da Giovan Battista Fabbri (secondo a sorpresa nella Serie A 1977-1978) e la Ternana di Corrado Viciani negli anni Settanta (senza trascurare quel Gigi Radice che a Firenze prima 
ed a Torino poi si propose come promotore di un forsennato pressing a tutto campo) uno dei pionieri assoluti nel diffondere il "verbo olandese" in Italia fu Luìs Vinìcio nel primo Napoli di Corrado Ferlaino, dando spettacolo 
e sfiorando un clamoroso primo scudetto nella storia dei partenopei nella stagione 1974-75 (e concedendo tanto agli avversari... indimenticabile 
una sonora sconfitta 2-6 dalla Juventus di Carlo Parola al San Paolo, per i fortunati che erano già nati allora): nello scontro diretto del 31 marzo '75 contro gli stessi bianconeri, col Napoli a 2 sole lunghezze di distanza, 
fu una rete allo scadere del "core 'ngrato" José Altafini 
a spezzare i sogni del "ciuccio all'olandese”.

Poi ci penso il "Barone" Nils Liedholm a vincere i primi scudetti con la difesa a zona già adottata in Olanda e Brasile: 10 ° scudetto, quello della stella, per 
il Milan 1978-79 (davanti al "Perugia dei miracoli" dell'altro innovatore Ilario Castagner, a sole 3 lunghezze dai rossoneri ed unica squadra imbattuta dell'intera Serie A!) e lo storico secondo scudetto della Roma nel 1982-83.

Eppure, come detto, nel nostro Paese si continuò a giocare “all’italiana”
(i luoghi comuni son sempre stati duri a morire, allora come oggi, dunque rassegniamoci a questa definizione…), grazie soprattutto alle straordinarie pagine di storia calcistica scritte dal coriaceo
Giovanni Trapattoniche con il “suo” libero Gaetano Scirea dominò in Italia e nel mondo: sette scudetti tra il 1977 e il 1986 (più uno 
all'Inter dei record 1988-89), due Coppe Italia, 
una Coppa dei Campioni (1985) con annesse Coppa Intercontinentale e Supercoppa Europea, una Coppa delle Coppe (1984) e una Coppa UEFA (1976-77, trofeo che rivinse all’Inter nel 1991 
ed al ritorno alla Juventus nel 1993).
In effetti, la cosiddetta “zona mista” 
diede risultati formidabili, impossibile non accennare in questo contesto al grande ‘Vecio’ Enzo Bearzot, il quale con questo modulo riuscì ad issare la Nazionale sul tetto iridato nel 1982, quarantaquattro anni dopo l’ultima volta. Fu uno dei primi schieramenti ad introdurre la linea difensiva “a quattro”,
pur non essendo propriamente in linea:
il libero (Scirea) copriva le spalle dei due marcatori centrali (il terzino destro Claudio Gentile e lo stopper Fulvio Collovati, casacca numero 5), mentre sulla sinistra il cosiddetto “terzino fludificante” 
(Antonio Cabrini) sgroppava sulla fascia a riproporre ciò che aveva “inventato” Giacinto Facchetti qualche anno prima. 

Al giorno d’oggi, il libero è un ruolo praticamente scomparso dai campi 

di gioco, a causa dell'utilizzo pressoché unanime della difesa a zona
(pura o mista che sia) a partire dalla seconda metà degli anni '80, grazie soprattutto (in Italia) ad Arrigo Sacchi 
ed i suoi successi internazionali col Milan, 
il trionfo del 4-4-2 e della retroguardia 
in linea; tra gli allenatori che si mossero 
nel solco tracciato dal tecnico di Fusignano 
in quegli anni ricordiamo Luigi Maifredi 
a Bologna e Giovanni Galeone a Pescara, non dimenticando altri illustri esponenti 
della "nouvelle vague tricolore" come Corrado Orrico, Giuseppe Marchioro 
(che visse una seconda giovinezza tra Como, Barletta e Reggiana, rinverdendo i fasti del Cesena 1975-76 sbiaditi dall'esonero in rossonero), il 'Professore' Franco Scoglio, per tacer dello spregiudicato mister boemo Zdeněk Zeman,
integralista eppur romantico fautore del 4-3-3Tutto ciò non significa affatto che il livello tecnico del gioco del calcio sia progredito, anzi… Ora impera 
la moda dilagante del 4-2-3-1 (il buon vecchio 4-5-1 riveduto e corretto: 
nessuna invenzione moderna…), al pari di moduli spuri e parecchio guardinghi che hanno creato una situazione generale in cui, pur non marcando quasi mai a uomo (discorso a dir poco relativo: spesso si vedono consegne sull’attaccante avversario piuttosto rigide), vige la prassi di sfruttare esclusivamente gli errori avversari, arroccando sette-otto giocatori in attesa all'interno della propria metà campo per limitarsi ad abusare di lanci lunghi,
ripartenze e transizioni rapide, oltre agli immancabili schemi sui calci piazzati.





I MIGLIORI LIBERI
NELLA STORIA DEL CALCIO



FRANZ BECKENBAUER - Germania

Il “Kaiser” (“Imperatore") del calcio mondiale, autentico dominatore degli anni Settanta insieme all’olandese Johann Cruijff, con il quale condivideva l’incredibile duttilità e l’universalità sul rettangolo verde, pur partendo ovviamente da posizioni differenti. Dotato di un’innata eleganza anche 

nei gesti più banali e di un’autorità unanimemente riconosciuta da compagni 
e avversari, riusciva ad essere allo stesso tempo un insuperabile difensore, 
un ispirato centrocampista ed il regista principe, dal piede chirurgico e dallo spiccato senso del gol. Con la sua nazionale disputò ben 103 incontri, 
tutti tra il 26 settembre 1965 (in casa della Sveziaed il 23 febbraio 1977 (ultima partita, contro la Francia), corredati da 14 gol e dai trionfi sia agli Europei del 1972 in Belgio che al Mondiale casalingo del 1974 (battendo da capitano in finale 2-1 l’Olanda di Cruijff). Con la maglia del Bayern Monaco Beckenbauer vinse quasi tutto il possibile: 4 titoli nazionali (oltre a quello nell’Amburgo 1981-82 ed ai 3 Campionati NASL con la maglia dei New York Cosmos), 4 Coppe di Germania, 3 Coppe dei Campioni consecutive tra il 1974 e il 1976, 1 Coppa delle Coppe e la Coppa Intercontinentale del 1976 contro i brasiliani del CruzeiroA livello individuale, Franz è stato il primo difensore in assoluto ad aggiudicarsi il Pallone d’Oro (1972 e 1976), oltre ad essere il primo (ed unico insieme al brasiliano Mario Zagallo) ad aver vinto 
i Campionati Mondiali di calcio sia come giocatore che come allenatore (ad Italia ’90 contro l’Argentina), per poi guidare in seguito il Bayern Monaco 
alla conquista dello Schale 1993-94 e alla Coppa UEFA 1995-96. Inarrivabile.


Uno dei più grandi, corretti e signorili “liberi” di tutti i tempi. Mai espulso, 
mai uno scatto d'ira, mai una parola fuori posto all’esterno del campo di gioco. Sbocciò nell'Atalanta, come centrocampista centrale dotato di piede fine e velocità di pensiero. Boniperti lo prelevò nel 1974: “Gai” ereditò il ruolo di Sandro Salvadore e, dalla stagione 1984-85, i gradi di capitano di Furino. Apparentemente era schierato in campo alle spalle della difesa, ma in realtà 
la sua invidiabile tecnica individuale gli permetteva di proporsi anche nella costruzione del gioco, un “regista arretrato” silenzioso ed eclettico, dotato 
di senso tattico e fiuto del gol (doppietta in un derby del 1982 vinto 4-2 
in rimonta dallo 0-2). Dal 1974 al 1988 disputò 377 partite di campionato
(e 552 in assoluto, record battuto solo da Alessandro Del Piero),
firmando 24 reti e conquistando 7 scudetti (1975, 1977, 1978, 1981, 1982, 1984, 1986), 2 Coppe Italia (1979, 1983), 1 Coppa dei Campioni (1985), 
1 Coppa delle Coppe (1984), 1 Coppa UEFA (1977), 1 Supercoppa d'Europa (1984) e 1 Coppa Intercontinentale (1985, epica sfida con l'Argentinos Jrs). Con la Nazionale di Bearzot (78 presenze, 2 gol) diventa campione del Mondo nel 1982, dando il via al contropiede coast-to-coast che portò al gol del 2-0 
di Marco Tardelli e all’urlo liberatorio nella notte dell’11 luglio di Madrid. 
Un’altra notte, stavolta tragica, c’è l’ha portato via troppo presto, in un inferno di fuoco e lamiere su una maledetta strada polacca. Immortale.


Guida e faro del Cile ai Mondiali 1966-1974-1982, capace di affermarsi 
a livello di club come il difensore più affidabile sia in Uruguay che in Brasile: 241 presenze e 6 gol nel Peñarol vincendo 2 campionati consecutivi
(1967-1968), laureandosi entrambe le volte miglior giocatore della competizione; 336 presenze con ben 26 gol nell’Internacional vincendo 
6 volte il titolo Gaúcho e la Bola de Ouro (miglior calciatore del campionato)
nel 1972 e 1976, premiato dalla FIFA ininterrottamente dal 1974 al 1976 
come “calciatore sudamericano dell’anno”; ritorno in patria al Palestino,
giusto in tempo per vincere altri 2 titoli nazionali consecutivi (1977-1978).
Classe, tempismo, padronanza nel palleggio, tecnica da centrocampista 
e grande atletismo: semplicemente, il miglior calciatore cileno di tutti i tempi 
ed il più forte difensore sudamericano della storia. L’eleganza al potere.


Colonna portante prima del São Paulo dal 1948 al 1959
(444 presenze complessive con 4 titoli Paulisti e 1 titolo Rio-San Paolo) 
e successivamente del Santos dal 1960 al 1967 (354 presenze, 1 gol 
con 5 titoli Paulisti, 3 titoli Rio-San Paolo, 5 Taça Brasil, 2 Libertadores,
2 Coppe Intercontinentali, 1 Recopa Mundial), regista difensivo dello straordinario Brasile conquistatore incontrastato della Rimet nel 1958 
e 1962, la Copa América 1949 e la Copa Roca 1963. Insieme al portiere 
Gilmar e ai terzini Djalma e Nìlton Santos riusciva a rendere impenetrabile una squadra sbilanciata meravigliosamente in avanti con i mitici Zito-Garrincha-Didì-Vavà-Pelé (Amarildo)-Zagallo. La roccia per eccellenza.

FRANCO BARESI – Italia

“Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato.
Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962” (Gianni Brera)Arrivò a Milanello quando aveva solo 14 anni (agosto 1974) per un milione e mezzo (20 mila lire il primo stipendio), appese le scarpette 
al chiodo il 28 ottobre 1997 dopo aver nobilitato la bacheca rossonera con 
6 scudetti, 4 Supercoppe Italiane, 3 Coppe dei Campioni, 3 Supercoppe Europee, 2 Coppe Intercontinentali. A corollario, un Mondiale da capitano svanito ai rigori contro il Brasile nel 1994 ed un altro “vinto” 
da panchinaro a Spagna ’82 senza mai scendere in campo. Condottiero.



Altri formidabili interpreti di questo ruolo sono stati: 

RUUD KROL (impareggiabile jolly difensivo nell’Ajax e nell’Olanda 

del “Calcio Totale”, partì come difensore laterale sinistro per poi spostarsi
al centro della difesa ed incantare Napoli tra il 1980 e il 1984, guidando 
il pacchetto arretrato da libero e diventando un beniamino assoluto
alle pendici del Vesuvio)

DANIEL PASSARELLA (veloce e abile nell’anticipare gli avversari, 
grande tecnica individuale, bi-campione del Mondo con l’Argentina, 
da capitano nel 1978 e da “spettatore convocato” nel 1986)

MURTAZ KHURTSILAVA (miglior giocatore georgiano di tutti i tempi e regista difensivo dell’URSS di Lev Jascin, dotato di tiro mortifero da fuori area e spiccate doti nella costruzione del gioco – bronzo olimpico a Monaco 1972 e storico 4° posto ai Mondiali 1966)

ULI STIELIKE (pluri-decorato a livello di club con lo sfortunato
Borussia Mönchengladbach anni ’70 di Udo Lattek che perse due finali,
Coppa Campioni e Coppa UEFA, sempre affrontando il Liverpool, 
e successivamente al Real Madrid; campione d’Europa con la Germania 
Ovest in Italia nel 1980 e vice-campione del mondo a Spagna ’82)

MIODRAG BELODEDICI (tecnica sopraffina e leggerezza di tocco 
che lo portarono a dominare in Romania e in Jugoslavia, vincendo 
2 Coppe Campioni: nel 1986 con la Steaua Bucarest di Emerich Jenei 
- con Supercoppa Europea qualche mese dopo, grazie a Gheorghe Hagi -
e nel 1991 con la Stella Rossa Belgrado di Ljupko Petrović prima 
e Vladimir Popović poi – con vittoria della Coppa Intercontinentale 
ai danni dei cileni del Colo Colo )

MARIUS TRÉSOR (uno dei primi calciatori di colore ad indossare la maglia della nazionale francese - il precursore assoluto fu il marocchino Larbi
Ben Barek, la "Perla Nera" che godeva della stima di un certo Pelé... - , divenendone poi capitano e leader dal 1971 al 1983 e consegnando le “chiavi” della squadra a Michel Platini, dopo aver giocato da titolare i Mondiali 1978 
in Argentina e 1982 in Spagna con tanto di 4° posto. 'Calciatore Transalpino dell'Anno' nel 1972 con la maglia dell'Olympique Marseille, con cui vinse 
la Coppa Nazionale 1975-76, visse una seconda giovinezza nel Bordeaux 
dal 1980, anno in cui alzò al cielo la Coppa delle Alpi, prima di centrare finalmente il titolo nell'ultima stagione della sua prestigiosa carriera:
1983-84, 12 presenze e 1 rete)

KLAUS AUGENTHALER (ruvido difensore dalle maniere spicce, all’occorrenza marcatore e dal tackle devastante, pluri-campione 
di Germania nel Bayern Monaco, con cui vinse anche la Coppa Campioni 
e l’Intercontinentale 1976 all’ombra di Beckenbauer, vice-campione 
del mondo a Mexico ’86 e finalmente campione a Italia ’90).

E poi ancora VELIBOR VASOVIĆ (dopo otto anni in patria ad altissimi livelli, quando collezionò 5 titoli nazionali col Partizan Belgrado e un altro 
con la Crvena Zvezda, divenne una colonna dell'Ajax tra il 1966 e il 1971, primo capitano straniero nella storia dei 'Lancieri', con cui mise insieme
3 successi in campionato (1966-1967, 1967-1968, 1969-1970), altrettante Coppe d'Olanda e la Coppa dei Campioni 1970-71, "vendicando" 
le due amare finali già disputate e perse nonostante la sua firma 
sul tabellino dei marcatori: 1965-66, Real Madrid-Partizan 2-1 
1968-69, Milan-Ajax 4-1, penalty trasformato al 60')


MORTEN OLSEN (tre volte campione del Belgio con l'Anderlecht, il club con cui conquistò anche la Coppa UEFA 1982-83, fu il primo danese 
a raggiungere le 100 presenze in Nazionale, spese tra il 1970 e il 1989)


ALAN HANSEN (scozzese cresciuto nel Partick Thistle FC, pluri-decorato nel cuore della difesa del Liverpool a cavallo tra la fine degli anni Settanta 
e il decennio successivo, capace di mettere in bacheca 8 titoli nazionali,
2 Coppe d'Inghilterra, 4 Coppe di Lega, 7 Charity Shield,
3 Coppe dei Campioni e 1 Supercoppa Europea)


JOSÉ RAMÓN ALEXANKO VENTOSA (l'ultimo specialista blaugrana, prima che il Dream Team allestito da mister Johan Cruijff a Barcellona spazzasse via il paradigma concettuale del ruolo, in cui il raffinato eppur tignoso basco si disimpegnò con polso fermo tra il 1980 ed il 1993, riscuotendo l'onore di alzare al cielo di Londra la prima Coppa dei Campioni culé e nonostante avesse preso parte soltanto agli ultimi sette minuti supplementari dell'atto conclusivo, subentrando a Josep Guardiola)


LAURENT BLANC (uno dei più prolifici difensori di tutti i tempi, protagonista nei maggiori campionati del Vecchio Continente,
Campione del Mondo 1998 e d'Europa nel 2000 in un irripetibile 
biennio nella storia della Francia).


Senza dimenticare liberi sui generis 
del calibro di Bobby Moore (come Augenthaler uno ‘sweeper’,
dall’inglese ‘to sweep’ = spazzar via, più che un libero “puro”) - 
Lothar Matthäus - José Emilio SantamaríaFrank Rijkaard
Matthias Sammer – Ronald KoemanBeppe Bergomi
Carlo Parola - Gyula LórántToninho Cerezo  Kjetil André 
Rekdal (perno della splendida Norvegia di Egil 'Drillo' Olsen nata all'alba   
degli Anni Novanta) ed altri che ricoprirono il ruolo “sotto mentite spoglie”,
o in alcuni casi a fine carriera dopo aver giocato per anni in altre posizioni.



Tra gli altri italiani nel ruolo è giusto citare, oltre all’insostituibile Armando Picchiil friulano Francesco Janich (che oltre ai fasti nella Lazio e nel Bologna – soprattutto - ebbe la sfortuna di legare il proprio nome alle due pagine più brutte del calcio italiano: esordì in Nazionale ai mondiali del '62, nella drammatica partita contro il Cile; vestì la sua ultima maglia azzurra 
in Inghilterra nel 1966 contro la Corea del Nord);
Giuseppe Wilson (nato a Darlington, Inghilterra, figlio di una napoletana e di un soldato inglese della Seconda Guerra Mondiale: acquistato dalla Lazio nel 1969 insieme a Giorgio Chinaglia dall’Internapoli in Serie C e D, inizialmente da terzino e poi da libero diventò uno dei leader dei biancocelesti nei successivi 10 anni, vincendo lo storico scudetto nel 1974 sotto la guida 
di Tommaso Maestrelli e partecipando alla sfortunata spedizione 
nel Mondiale tedesco dello stesso anno);
Pierluigi Cera (centrocampista in origine, vincitore dello storico scudetto 1969-70 nel Cagliari di Manlio Scopigno e indimenticabile protagonista con la maglia azzurra e con i compagni Luigi Riva, Enrico Albertosi, Comunardo Niccolai, Angelo Domenghini, Sergio Gori nel Mondiale 1970 in Messico 
agli ordini di Ferruccio Valcareggi; successivamente titolare nella storica qualificazione alla Coppa UEFA del Cesena nel 1975-76);
Roberto Tricella (concittadino di Scirea, nato a Cernusco sul Naviglio,
un libero ultra-moderno di scuola interista, capitano e uomo-chiave dell’irripetibile Hellas Verona 1984-85, Campione d’Italia 
sotto la sapiente guida di Osvaldo Bagnoli).

Marco Oliva per FUTBOLANDIA DREAMIN'

4 commenti:

  1. JuRo:

    pezzo splendido, complimenti vivissimi.
    Si potrebbe trattare anche altri ruoli ormai
    in disuso, tipo le ali d'attacco pure,
    e magari analizzare i cambiamenti ed i ritorni
    di altri, come quello del Centromediano
    Metodista, figura sempre più comune

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  2. Gianni 52:

    dubbio amletico: è stato più importante
    Franco Baresi o Gaetano Scirea per la storia
    del calcio qui in Italia? Da interista, e dunque
    super-partes, resto nel dubbio. Gli ho visti
    entrambi all'opera, due straordinari
    fuoriclasse, anche se la mia personale bilancia
    pende un pochetto dalla parte dello juventino,
    più completo (sul fronte offensivo,in primis),
    ma forse il mio giudizio è condizionato
    dalle emozioni che suscito in me
    il leggendario Mundial 1982, mentre invece
    il milanista in Nazionale non ha avuto
    gli stessi apici. Due Campionissimi, comunque.

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  3. Ringrazio l'autore dell'articolo
    (a proposito, chapeau: pezzo interessantissimo)
    per aver citato Roberto Tricella,
    che nella stagione dello storico scudetto
    nel mio Verona fu preziosissimo come e più
    di Briegel, Elkjaer & Company

    posso ricordare i nomi di quella rosa?
    Un pizzico di sana nostalgia da tifoso:

    Claudio Garella
    Sergio Spuri

    Mauro Ferroni
    Silvano Fontolan
    Fabio Marangon
    Luciano Marangon
    Roberto Tricella

    Hans-Peter Briegel
    Luciano Bruni
    Antonio Di Gennaro
    Dario Donà
    Pietro Fanna
    Luigi Sacchetti
    Antonio Terracciano
    Franco Turchetta
    Domenico Volpati

    Preben Elkjær Larsen
    Giuseppe Galderisi


    UNO SQUADRONE! Molto sfortunato in Europa.
    E come dimenticare la guida dell'impareggiabile
    Osvaldo Bagnoli? Grazie per avermi permesso
    questo revival emozionale

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  4. roberto guidi:

    sono un pò vecchiotto, dunque leggere
    questo pezzo è stato un bel tuffo nella memoria
    e nei ricordi, visto che molte di queste
    leggendarie partite e leggendarie figure
    di campioni le ho vissute in presa diretta.
    grazie per l'excursus ed il viaggio
    sulla macchina del tempo.

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